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Una seduta mai avvenuta: Kobe Bryant sul lettino

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Lo so non hai bisogno dello psicologo ma io mi sono chiesto: come sarebbe stato fare una seduta a Kobe Bryant? Questa è la rubrica una seduta mai avvenuta, in cui provo a far rivivere per quanto possibile le parole e le esperienze di grandi persone del passato che purtroppo non sono più con noi.

Come? Grazie all’aiuto di un’intelligenza artificiale che ho addestrato in modo molto specifico: le ho fornito il contenuto di libri e filmati fondamentali dedicati a Kobe Bryant, per assicurarmi di ricostruirne il pensiero, la storia e lo stile di comunicazione nel modo più fedele possibile.

Certo, è un esperimento, un mix tra approfondimento storico e tecnologia e non vuole sostituire la persona reale, né mancare di rispetto alla sua memoria. Al contrario, l’idea è di omaggiare l’atleta, la sua carriera e i valori che ci ha trasmesso, traendone lezioni preziose per il presente. Spero che questa ‘seduta impossibile’ vi affascini e vi ispiri, così come lo è stato per me prepararla. Mettetevi comodi: sta per iniziare una seduta mai avvenuta a Kobe Bryant

LA SEDUTA MAI AVVENUTA CON KOBE BRYANT

Vorrei cominciare da una semplice domanda, per cosa giocavi a basket?

Giocavo a basket perché era la mia ragione di esistere. Non c’è un altro modo per dirlo. Il basket era il mio linguaggio, il modo in cui esprimevo chi ero. Fin da bambino, quando guardavo mio padre giocare in Italia, sapevo che quel gioco sarebbe stato la mia vita. Non si trattava solo di vincere, anche se vincere era tutto per me, ma di scoprire fino a che punto potevo spingermi, fino a che livello potevo portare il mio talento, la mia mente, il mio corpo.

Vedi, la gente pensa che la motivazione venga dall’esterno: il successo, i trofei, i riconoscimenti. Per me non è mai stato così. La motivazione era interna. Non avevo bisogno che qualcuno mi dicesse di allenarmi alle quattro del mattino o di studiare ogni singolo movimento dei miei avversari. Lo facevo perché volevo essere il migliore, e sapevo che per esserlo non potevo lasciare nulla al caso.

Giocavo a basket per esplorare i miei limiti e superarli. Per scoprire chi fossi veramente sotto pressione, nel momento in cui il gioco si faceva duro. Perché il dolore, la fatica, le sconfitte, tutto quello che gli altri evitavano, per me erano sfide da affrontare e superare. Non avrei potuto vivere in nessun altro modo.

Chiaro e perché proprio tu sei riuscito a trasformare tutto questo in realtà. Come mai tu e non un altro?

Perché ero disposto a fare quello che gli altri non facevano. Non c'è un segreto, solo una verità semplice e brutale: la maggior parte delle persone vuole essere grande, ma non è disposta a pagare il prezzo della grandezza. Io sì.

Fin da ragazzino, mentre gli altri dormivano, io mi allenavo. Quando i miei compagni di squadra finivano la sessione, io restavo in palestra per un’altra ora, due ore, finché le gambe non mi cedevano. Quando sbagliavo un tiro, non andavo avanti finché non lo rifacevo mille volte nel modo giusto. Ho studiato il gioco come uno scienziato, ho analizzato ogni dettaglio, ogni contromossa, ogni punto debole degli avversari.

Ma la cosa più importante era la mia mentalità. Non ho mai avuto paura di fallire. Se c’era qualcosa che non sapevo fare, lo imparavo. Se c’era un punto debole nel mio gioco, lo trasformavo in un punto di forza. Se c’era un avversario che mi batteva, studiavo ogni sua mossa fino a sapere cosa avrebbe fatto prima ancora che lo facesse lui. La gente si limita a guardare la partita, io la smontavo pezzo per pezzo, la studiavo, la ricostruivo dentro la mia testa finché non diventava mia.

La verità è che chiunque può dire di voler essere il migliore, ma pochi sono disposti a soffrire come ho sofferto io per arrivarci. Pochi sono disposti a svegliarsi ogni giorno con un solo pensiero: migliorare. Sempre. Senza mai essere soddisfatti. Ecco perché io e non un altro.

E secondo te si nasce con questa predisposizione o si può allenare?

Si può allenare, ma solo se hai la volontà di farlo. La predisposizione conta, certo. C’è chi nasce con più talento, con un fisico migliore, con una mente più reattiva. Ma queste cose da sole non bastano. Io ho giocato con e contro tanti talenti incredibili che non hanno mai fatto il salto di qualità, perché non avevano la mentalità giusta.

La mamba mentality non è qualcosa con cui nasci. È una decisione. Ogni giorno. È scegliere di non accettare scuse, di non mollare quando sei stanco, di non accontentarti mai. E questa mentalità si può allenare. Come? Facendo le cose che non vuoi fare, nel momento in cui non vuoi farle. Quando la tua mente ti dice “basta”, devi rispondere “ancora”. Quando il tuo corpo è a pezzi, devi fare un’altra ripetizione, un altro tiro, un altro passo.

Si può allenare imparando a convivere con il fallimento. La maggior parte della gente si tira indietro quando sbaglia, si protegge. Io invece cercavo il fallimento. Lo volevo. Perché ogni errore era un’opportunità di crescita. Se sbagliavo un movimento, lo analizzavo fino a padroneggiarlo. Se un avversario mi batteva, studiavo fino a trovare il modo di batterlo io.

La mentalità non è un dono. È una costruzione, mattone dopo mattone. La domanda non è se puoi allenarla, ma se sei disposto a farlo. Sei disposto a soffrire per raggiungere un livello che pochi raggiungono? Sei disposto a mettere il tuo obiettivo sopra ogni altra cosa? Se la risposta è sì, allora puoi allenarti a essere il migliore. Se la risposta è no, allora rimarrai nella media, indipendentemente dal talento con cui sei nato.

Hai parlato di mamba mentality, quand’è che hai scelto questo filosofia?

Il black mamba è nato in uno dei momenti più difficili della mia vita. Era il 2003, stavo attraversando un periodo buio, dentro e fuori dal campo. Il mondo mi guardava con occhi diversi, la pressione era insopportabile, e sentivo che stavo perdendo il controllo su chi ero. Avevo bisogno di una separazione, di un alter ego che mi permettesse di affrontare ogni situazione senza farmi sopraffare dalle emozioni.

Così ho creato il black mamba. Ho preso ispirazione dal serpente, letale, veloce, spietato, freddo. Quando ero in campo, non ero più Kobe Bryant, l'uomo con le sue paure e i suoi problemi. Ero il mamba. Un killer. Qualcuno che non si faceva distrarre, che colpiva con precisione, che non esitava mai.

Questa mentalità mi ha permesso di affrontare tutto. Non era solo un modo di giocare, era un modo di vivere. Il Mamba non si fa abbattere dagli ostacoli. Non ha paura della pressione. Il Mamba si adatta, evolve, trova sempre un modo per vincere.

È stato allora che ho capito: il Black Mamba non era solo per me. Poteva essere un simbolo per chiunque volesse superare i propri limiti, per chiunque fosse disposto a lavorare più degli altri, a sacrificarsi, a trasformare il dolore in forza.

Non è stato un soprannome. È stato un’identità. E ancora oggi, anche se non sono più qui fisicamente, il mamba vive in chiunque scelga di adottare quella mentalità.

Devo dirti la verità, questa storia della Mamba Mentality penso che spesso sia utilizzata in modo tossico. Le persone cercano di imitarla, ma non capiscono che se non hai quella struttura di personalità finisce che ti logori peggio.

Capisco cosa intendi, ed è una critica che ho sentito più volte. La mamba mentality non è per tutti. Ed è proprio questo il punto. Non è un’idea romantica della grandezza, è un impegno totale. E se non sei pronto a pagarne il prezzo, se non è qualcosa che senti dentro, allora può diventare tossica, sì.

Troppe persone pensano che adottarla significhi solo lavorare più degli altri, non dormire, spingere il proprio corpo oltre il limite, ma non è così. La mamba mentality non è solo uno sforzo fisico, è una struttura mentale. Io l’ho costruita negli anni, giorno dopo giorno, con disciplina, con metodo. Per me non era stressante perché faceva parte della mia identità.

Ma se cerchi di imitarla senza avere la mia ossessione naturale, senza avere lo stesso rapporto con il fallimento, senza avere la capacità di gestire la pressione, allora sì, diventa distruttiva. Perché? Perché non è solo una questione di forza di volontà. È una questione di sistema, di gestione delle energie, di consapevolezza del proprio equilibrio. Io sapevo come calibrare il mio sforzo, come recuperare, come bilanciare la mia vita con la mia ossessione.

Il problema è che la gente prende solo il lato più estremo della Mamba Mentality, lavorare fino allo sfinimento, dormire poche ore, non accettare limiti e lo applica senza il contesto giusto. E lì sì, ti bruci. Perché non è sostenibile se non hai la struttura mentale ed emotiva per reggerlo.

Quello che dico sempre è: non devi essere me. Devi trovare la tua versione della Mamba Mentality, un equilibrio che funzioni per te. Il punto non è fare come Kobe, ma essere la miglior versione di te stesso. Se per te la grandezza significa avere più equilibrio, più riposo, più attenzione alla salute mentale, va bene così. Il problema non è la mentalità in sé, è come la applichi.

E tu per trovare il tuo equilibrio, hai sempre condizionato e allenato la mente con la meditazione o sbaglio?

Esatto, la meditazione è sempre stata una parte fondamentale della mia routine, e non solo per il basket. L’ho scoperta grazie a Phil Jackson, che la utilizzava con noi ai Lakers, ma l’ho fatta mia perché ho capito quanto fosse potente per allenare la mente, non solo il corpo.

Vedi, la gente pensa che la mia intensità fosse solo fatica, sudore, ossessione. Ma la verità è che senza equilibrio mentale non puoi sostenere quel livello di intensità a lungo. La meditazione mi aiutava a centrarmi, a ritrovare lucidità, a gestire la pressione. Quando sei in campo nei momenti decisivi, devi essere nel presente, totalmente focalizzato. Non puoi permetterti di pensare all’errore che hai fatto prima, a cosa succederà dopo. La meditazione mi insegnava proprio questo: restare nel momento.

Non era qualcosa di esoterico per me, era pratico. Mi svegliavo la mattina e la prima cosa che facevo era prendermi 10-15 minuti per respirare, per svuotare la mente, per prepararmi alla giornata. Quando giocavo, usavo il respiro per calmarmi nei momenti critici, per rallentare il battito cardiaco, per non farmi travolgere dall’adrenalina.

E lo facevo anche fuori dal basket. Quando stavo con la mia famiglia, volevo essere lì completamente presente, non con la testa ancora alla partita o all’allenamento. La meditazione mi ha dato questa capacità di separare i momenti, di non farmi trascinare via dal caos, dalle distrazioni, dalle emozioni negative.

Ecco perché dico sempre che la mamba mentality non è solo spingere al massimo, è anche sapere quando fermarsi, quando ascoltare il proprio corpo, quando essere consapevoli di cosa sta succedendo dentro di te. Se vuoi essere grande, non puoi allenare solo il fisico. Devi allenare anche la mente.

Voglio farti una domanda, c'è mai stato un momento in cui hai smesso di credere a tutto questo?

Sì. E lo dico senza esitazione, perché anche se la gente mi vedeva come una macchina inarrestabile, sono stato umano anch’io. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesto: “Ma ne vale la pena?”

Uno dei momenti più duri è stato nel 2003, quando il mondo sembrava crollarmi addosso. Avevo perso la fiducia di molte persone, venivo giudicato non solo come atleta, ma come uomo. Entravo in campo e sentivo i fischi, vedevo lo sguardo della gente cambiare. Ho avuto dubbi su tutto. Su di me. Sul basket. Sulla mia identità.

E poi, gli infortuni. Il tendine d’Achille nel 2013, per esempio. Quando mi sono accasciato a terra, ho capito subito che era finita, che niente sarebbe più stato lo stesso. E in quei momenti il pensiero arriva: “E se mollassi?” Perché è facile credere nella Mamba Mentality quando sei giovane, forte e niente ti sembra impossibile. Ma quando il tuo corpo si rompe e devi ricominciare da capo, giorno dopo giorno, lì arriva la vera prova.

Però la differenza tra me e gli altri è che non ho mai lasciato che quei momenti mi definissero. Ho avuto dubbi, certo. Ma non mi sono mai fermato su quei dubbi. Li ho affrontati. Li ho usati.

Quindi, sì, ho smesso di credere? Per qualche istante, forse. Ma poi ho trovato il modo di tornare. Sempre. Perché quando vivi per qualcosa di più grande di te—per la tua passione, per la tua missione—non importa quante volte cadi. Conta quante volte ti rialzi.

Ora che hai usato la parola rialzi, mi è venuta in mente quanto accaduto a George Floyd e di come sarebbe stato a quel poliziotto rialzarsi per evitare una tragedia. Ho letto molto sulla tua storia, ma non ho trovato un'attenzione specifica sul tema del black lives matter. C'è un motivo?

Il motivo è che io ho sempre creduto che il modo migliore per combattere le ingiustizie fosse attraverso l’azione più che le parole. Ho sempre sostenuto la comunità nera, non con slogan o discorsi, ma con l’esempio, con le opportunità che creavo, con il modo in cui vivevo la mia vita.

Vedi, io sono cresciuto in Italia, lontano dalle dinamiche razziali americane. Da bambino non avevo la percezione della segregazione o del razzismo sistemico nel modo in cui un ragazzo nero cresciuto negli Stati Uniti lo vive fin da piccolo. Ma quando sono tornato, ho visto tutto con occhi diversi. Ho capito cosa significasse essere un atleta nero negli USA, cosa significasse per un ragazzo nero guardare in TV e vedere qualcuno come me realizzare i propri sogni.

Quando Colin Kaepernick ha iniziato la sua protesta inginocchiandosi durante l’inno, io l’ho sostenuto. Nel 2014, quando Eric Garner è stato ucciso e il movimento Black Lives Matter ha iniziato a crescere, ho indossato la maglia “I Can’t Breathe” per mostrare il mio supporto. Ma il mio approccio non era quello del grande attivista da palcoscenico. Il mio lavoro era ispirare, creare opportunità, dare potere alla prossima generazione.

Il modo in cui combattevo per la comunità nera era attraverso l’istruzione, attraverso i programmi per i giovani, attraverso il mio impegno nel business e nell’intrattenimento, aprendo porte che prima erano chiuse per noi. Perché il vero cambiamento arriva quando crei accesso, quando dai strumenti, quando costruisci una mentalità vincente che permette alle persone di superare i limiti imposti dalla società.

Quindi sì, ho sostenuto la causa. Ma l’ho fatto a modo mio. Non ero un uomo da proclami, ero un uomo da azioni concrete.

Quindi nel corso della tua carriera sotto questo punto di vista tu non hai mai avuto episodi spiacevoli?

Ovviamente sì. Essere un uomo nero in America, anche se sei famoso, non ti protegge completamente dal razzismo. Ci sono stati episodi, momenti in cui ho sentito il peso di essere visto prima come un “black man” e poi come un atleta o una persona.

Uno dei primi momenti in cui mi sono scontrato con questa realtà è stato quando sono tornato dall’Italia. Là ero semplicemente Kobe. Nessuno mi guardava come “il ragazzo nero”. Quando sono rientrato negli Stati Uniti e ho iniziato a giocare, ho sentito il cambiamento. La gente aveva già un’etichetta pronta per me, senza nemmeno conoscermi.

Ci sono stati anche episodi diretti. In alcune trasferte NBA, nei primi anni, mi sono sentito chiamare con insulti razzisti dagli spalti. Una volta, un tifoso mi ha urlato “Vai a giocare nel campionato dei neri”. Un’altra volta, mentre camminavo in un parcheggio, una persona mi ha guardato e mi ha detto con disprezzo: “Sai di essere fortunato, vero?” – come se fossi un’eccezione, come se per un nero fosse “un colpo di fortuna” essere lì.

Ma per me il modo di rispondere a queste cose non era lamentarmi. Era vincere. Mostrare a tutti che la grandezza non ha colore, che il duro lavoro e la mentalità possono superare qualsiasi barriera.

Questo però non significa che io abbia ignorato il problema. Ho sempre saputo che non tutti gli atleti neri hanno le stesse possibilità che ho avuto io. E per questo, una volta finita la carriera, mi sono dedicato a creare più opportunità per le giovani generazioni. La mia accademia, i miei investimenti nei media, la mia volontà di raccontare storie di atleti neri che non avevano mai avuto voce, tutto questo era parte del mio modo di combattere.

Il razzismo esisteva quando giocavo e esiste ancora oggi. Ma il mio messaggio è sempre stato chiaro: tu non puoi controllare il modo in cui gli altri ti vedono, ma puoi controllare il modo in cui rispondi. E la risposta deve essere sempre eccellenza.

A livello mentale, hai mai visto o conosciuto un'atleta superiore a te?

No. E non lo dico per arroganza, lo dico perché so esattamente quanto ero disposto a sacrificare per essere il migliore. Ho giocato con i più grandi, ho studiato ogni loro movimento, ho visto cosa li spingeva, quanto lavoravano, quanto erano ossessionati. E so che nessuno era disposto a fare quello che facevo io, giorno dopo giorno, per tutta la mia carriera.

Michael Jordan? Era il più vicino. Lui aveva quella mentalità killer, quell’ossessione per il dettaglio, quella fame insaziabile di vittoria. Ma quando ho parlato con lui, quando l’ho studiato, ho capito che anche lui aveva momenti in cui lasciava spazio ad altre cose nella sua vita. Io no. Per me il basket era tutto.

Ci sono stati grandi campioni con una mentalità fortissima: Tom Brady, Tiger Woods, Serena Williams. Ma quello che mi differenziava era la mia totale capacità di isolarmi da qualsiasi distrazione, di vivere in un mondo in cui l’unico obiettivo era migliorare, migliorare, migliorare.

La mia mentalità era una scelta consapevole, ogni singolo giorno. Non è qualcosa con cui nasci. È qualcosa che crei, che costruisci mattone dopo mattone. E io l’ho costruita più forte di chiunque altro.

C'è una domanda che mi porto da dietro da un pò di tempo. Tu una volta in carriera hai fatto 81 punti in una sola partita. Nonostante il tuo impegno come mai non sei riuscito a fare di più? In generale, come mai nello sport come nella vita, a un certo punto non si superano più i propri limiti?

Questa è una domanda profonda. E la risposta è che i limiti non sono reali finché non li incontri.

Quella sera in cui ho segnato 81 punti, ero in una zona mentale e fisica dove tutto sembrava possibile. Ma allora perché non ne ho fatti 90? 100? La verità è che, in qualsiasi sport o campo della vita, esiste un punto in cui anche la volontà più forte incontra un muro.

A un certo livello, il progresso non è più lineare. Non è che più lavori, più migliori in modo costante. C’è una soglia, una curva che si appiattisce, dove il tuo corpo, la tua mente, le circostanze, tutto inizia a lavorare contro di te.

E qui sta la differenza tra chi è grande e chi è leggendario: sapere quando quel limite è reale e quando è solo mentale.

Nella mia carriera, ho sempre cercato di spostare quei limiti, di ridefinire ciò che era possibile. Quando ho fatto 81 punti, il mio corpo e la mia mente erano perfettamente sincronizzati, ma anche in quel momento ho capito che ci sono fattori che non puoi controllare al 100%: il ritmo della partita, la stanchezza, il tempo a disposizione.

E nella vita è la stessa cosa. Ci sono momenti in cui sembra che più spingi, meno ottieni. Perché? Perché il progresso non è infinito. Devi essere intelligente, devi capire quando il miglioramento è una questione di sforzo e quando è una questione di adattamento.

Il segreto è non farsi ossessionare dal superare i propri limiti a tutti i costi, ma capire come massimizzare quello che hai. È lì che entra in gioco la mamba mentality: non è solo lavorare di più, è lavorare in modo più intelligente, con più consapevolezza, con più precisione.

Quindi, la vera domanda non è perché non ho superato gli 81 punti. La vera domanda è: ho fatto il massimo in quel momento? E la risposta è sì. E questa è la vera vittoria.

Essere il numero vuol dire anche avere molti che ti vogliono buttare giù e la rivalità ti ha spinto a diventare migliore. Chi è stato l’avversario che ha tirato fuori il meglio di te?

Non posso dirne solo uno, perché la verità è che ogni grande avversario ha tirato fuori qualcosa di diverso da me. Ma se devo fare dei nomi, ti dico tre giocatori che mi hanno costretto a salire di livello:

Michael Jordan: la prima volta che l’ho affrontato, sapevo già che sarebbe stato un test. Non si trattava solo di giocare contro il mio idolo, ma di dimostrare a me stesso che potevo stare al suo livello. Jordan era spietato. Ti studiava, ti attaccava nei tuoi punti deboli, ti faceva pagare ogni errore. Ma il vero insegnamento è stato un altro: non voleva solo battermi, voleva vedere se avevo il coraggio di rispondere al fuoco. E io l’ho fatto. Quelle partite mi hanno fatto capire che non si trattava solo di talento, ma di resistenza mentale, di costanza, di controllo emotivo.

Allen Iverson: mi ha messo alla prova in un altro modo: era un guerriero puro, un killer senza paura. Aveva un’etica del lavoro e un’aggressività uniche. Ogni volta che lo affrontavo, dovevo essere più veloce, più preciso, più resistente. Nel 1999-2000 mi ha distrutto con 41 punti e ho capito che se volevo essere il migliore, dovevo essere un difensore d’élite oltre che un attaccante. Da lì in poi ho trasformato la difesa in un'ossessione.

LeBron James: è stato l’avversario che ha rappresentato la nuova generazione, l’erede designato. Era più giovane, più atletico, più fisico. Ogni volta che giocavo contro di lui, sapevo che il mondo stava guardando e volevo dimostrare che la mia mentalità, la mia tecnica, il mio studio del gioco potevano essere superiori alla pura potenza fisica.

Ma la verità è questa: la mia rivalità più grande era con me stesso. Ogni avversario era solo uno specchio per capire dove potevo migliorare. Loro mi mettevano alla prova, ma ero io che decidevo di trasformare ogni sfida in benzina per diventare più forte. Questo è il vero segreto della grandezza.

Kobe qual è il tuo ricordo più caro?

Il mio ricordo più caro non è un trofeo, non è una vittoria sul campo. È una voce. È il momento in cui, dopo la mia ultima partita, quella dei 60 punti contro gli Utah Jazz,sono andato negli spogliatoi, stanco, svuotato… e ho sentito: “Bravo, papà.”

Era la voce di Gianna, mia figlia. Quel momento per me vale più di tutti i cinque anelli, più degli 81 punti, più di qualsiasi MVP. Perché lì, in quel semplice “bravo”, c’era tutto ciò per cui avevo lottato: la dimostrazione che lei aveva visto, aveva capito cosa significasse dare tutto per una passione.

Per anni mi ero chiesto se tutti quei sacrifici avessero un senso. Le albe passate in palestra, il dolore, le notti senza sonno. E in quell’istante ho capito: sì, ne era valsa la pena. Non solo per i titoli, ma perché stavo lasciando qualcosa che andava oltre il basket. Stavo lasciando un esempio, una mentalità, un modo di vivere che lei avrebbe portato con sé.

Quindi, il mio ricordo più caro?

Non è ciò che ho fatto. È ciò che ho lasciato. Perché le vittorie svaniscono, i trofei prendono polvere. Ma sapere che la persona che amavi di più al mondo aveva capito chi eri veramente. Quella è la vittoria più grande.

E invece cosa è troppo serio per scherzarci su?

Per me, i sogni delle persone. Non c’è niente di più serio di qualcuno che crede in qualcosa, che lotta per realizzare un sogno, che mette il cuore in ciò che ama. Ho sempre odiato chi si prende gioco delle ambizioni altrui, chi dice “Non ce la farai”, “È impossibile”, “Stai perdendo tempo”.

Perché? Perché io sono stato quel ragazzino a cui dicevano che non ce l’avrebbe fatta, che era solo un presuntuoso a voler essere come Jordan, che tirava troppo, che era troppo individualista, troppo giovane, troppo testardo. Se avessi ascoltato quelle voci, non sarei mai diventato Kobe Bryant.

Per questo non ho mai scherzato sul lavoro, sulla dedizione, sulla passione. Per me è sempre stata una cosa sacra. La gente mi chiamava ossessionato, maniaco, ma io la chiamavo rispetto per il mio sogno.

E vale per tutti. Che tu voglia essere un atleta, un artista, uno scienziato o un imprenditore, il tuo sogno merita rispetto. Non lasciare mai che qualcuno lo derida o lo sminuisca.

C’è una cosa che dicevo sempre: “Se non credi nei tuoi sogni, come puoi aspettarti che ci credano gli altri?” Ecco, per me i sogni sono troppo seri per scherzarci su. Perché sono il fuoco che rende la vita degna di essere vissuta.

In questa vita siamo ciò che pensiamo o ciò che facciamo?

Siamo ciò che facciamo, ripetutamente. I pensieri sono importanti, certo. Le intenzioni, i sogni, le visioni... tutto inizia da lì. Ma se restano nella testa, non valgono nulla. Quanti hanno sognato di essere grandi, ma non hanno mai agito? Quanti hanno avuto idee incredibili, ma non hanno mai avuto il coraggio di realizzarle? Io ho sempre creduto che la differenza tra chi è grande e chi resta nella media sia una sola cosa: l’azione. “Non è ciò che pensi che ti definisce. È ciò che fai ogni giorno quando nessuno guarda.”

Io non ero il più talentuoso. Non ero il più forte. Ma ero quello che, quando il pensiero diceva ‘basta’, faceva un tiro in più. Quando la mente suggeriva il riposo, io mi alzavo dal letto. Quando il mondo diceva che non ce l’avrei fatta, io rispondevo con i fatti.

Siamo ciò che scegliamo di fare, ogni singolo giorno, anche nelle piccole cose. La disciplina è il ponte tra ciò che pensiamo di essere e ciò che diventiamo davvero. I pensieri ci ispirano.
Le azioni ci definiscono.
La ripetizione ci trasforma. Ecco perché io dico:“Le intenzioni ti dicono chi vorresti essere. Le azioni ti mostrano chi sei.”

Quale parola ti piace di più?

Papà

In conclusione

Speriamo che questa seduta impossibile vi sia piaciuta. Ripeto è un esperimento.


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Info sull'autore

Mi chiamo Marco Borgese e sono uno psicologo, PhD student presso l’Università degli Studi di Salerno, psicoterapeuta ad approccio strategico integrato e sono certificato come practitioner EMDR ed esperto in Mindfulness MBSR. Collaboro come mental coach con atleti di alto livello, troverai nel sito alcune testimonianze. Collaboro inoltre nell’atletica con la velocità delle Fiamme Gialle e la Vero Volley, mentre in passato ho collaborato con la Stella Azzurra Basketball. Sono docente presso il corso UEFA Pro dell’Università del Calcio di Coverciano, nel Master in Psicologia Digitale di Idego e nel Master Giunti in Psicologia dello Sport.

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